lunedì 30 settembre 2013

POVERA PATRIA!


Povera Patria       









afflitta da tronchi      rugginosi



chissà se questa volta ce la farai


sabato 28 settembre 2013

FABRIZIO GIULIMONDI:PUBBLICO LA LETTERA APERTA A GUIDO BARILLA A FIRMA DEL SIGNOR ELISEO DEL DESERTO

"Signor Guido Barilla,

Le scrivo perché sono io a volerLe chiedere perdono!

Io sono un ragazzo omosessuale che ha seguito in questi giorni la vicenda scatenata dalle Sue dichiarazioni. Ero infastidito dal moltiplicarsi delle chiacchiere, delle battaglie inutili, boicottiamo o non boicottiamo, dall’elenco insipido delle altre marche di pasta, dalla Sua foto oltraggiata ed osannata.

Vivo lontano da casa ormai da quattro anni, e non riesco a mangiare nessun’altro tipo di pasta, anche se risparmierei, perché l’unica che mi ricorda la mia famiglia è la Barilla. Vuoi per la pubblicità, o forse solo perché è la pasta che mi ha sempre cucinato mia mamma.

Sono omosessuale e credo anch’io nella famiglia tradizionale e non credo che altri tipi di unione possano definirsi “evoluzione della famiglia”.

Quando da piccoli o da giovani ci rendiamo conto di essere omosessuali, lo sentiamo sulla nostra pelle: siamo diversi. Questa diversità inizialmente viene vissuta da tanti (non voglio generalizzare) come un handicap. Dopo la disperazione iniziale si cerca un equilibrio, una ragione, la felicità. Tutti abbiamo una diversità da gestire, questa è la verità.

E’ giusto riconoscere i tratti della nostra differenza, accettarne i limiti. Due uomini non potranno mai generare un figlio per esempio. Due donne non saranno mai una famiglia intesa in senso tradizionale. Non sto dicendo che le unioni omosessuali devono essere bandite, e sono sicuro che in una coppia omosessuale possa nascere un calore simile all’intimità familiare.

La maggior parte di noi però viene da una famiglia tradizionale. Tutti siamo figli! Sappiamo quanto abbiamo bisogno di un padre che sia veramente uomo e di una madre che sia pienamente donna! Io lo so, ogni volta che desidero profondamente avere un uomo forte accanto a me.

Perdono Signor Barilla! Per le parole umilianti che ha dovuto subire, Lei e la Sua azienda a causa di noi omosessuali. Anche se alcuni non saranno d’accordo con me. Io che nonostante tutto sono uno di loro, Le chiedo scusa. Scusi le ingiurie, le pressioni, i boicottaggi, le parole inutili di quel manipolo di anime ruggenti che vanno solo in giro cercando chi divorare.

Sulla famiglia ha molto da imparare chi l'ha portata a scusarsi per delle parole che non avevano nulla di offensivo.

L’atteggiamento violento, persecutorio, intimidatorio, dunque bullistico di questa gente, insieme alle tante espressioni di orgoglio gay che negli anni si sono diffuse, suscitano tutto in me, eccetto la fierezza di essere omosessuale.

Perdono ancora!"

Eliseo del Deserto
(tratta da eliseodeldeserto.blogspot.com)

mercoledì 25 settembre 2013

"LA GRANDE BELLEZZA" DI PAOLO SORRENTINO: CANDIDATO ALL'OSCAR COME MIGLIOR FILM IN LINGUA NON INGLESE

Locandina del film La grande bellezza

Dopo alcuni lungometraggi, romanzi giunti sulla soglia del Premio Strega, pellicole apprezzate dalla critica, film di particolare valore estetico e corposo significato contenutistico, come Il Divo (2008) e This must be the place (2011), Paolo Sorrentino porta nelle sale italiane La grande Bellezza, un’opera che meritava senz’altro di ricevere (al pari di Miele, già oggetto di commento in questa Rubrica) premi di prestigio all’appena terminato Festival di Cannes.
L’arte del regista Sorrentino oramai è indiscussa e non ha nulla da invidiare a quella immaginata dai grandi autori europei e statunitensi.
Film di pregio, intenso, pieno, suggestivo e completo, a tutto tondo, simbolico, articolato e complesso, arguto e disincantato, cinico e bonario, intelligente e delicato, La grande Bellezza vede un cast composto dal più importante cinema italiano, un florilegio di nomi raramente compresenti in maniera così massiva in un produzione cinematografica: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Francesca Neri, Roberto Harlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Vernon Dobcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Giulia Di Quilio, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek, Stefano Fregni.
Toni Servillo, oramai uno dei sommi interpreti del cinema italiano, primeggia su tutti nella parte del protagonista Jep Gambardella, anche se gli altri attori, ognuno per la propria parte, maggiore o minore che sia, danno quel tratto di penna, quella pennellata, quel tocco musicale, che rendono il lavoro corale grandioso e armonico.
Jep Gambardella è uno scrittore che ha pubblicato decenni prima dell’inizio della storia un romanzo di discreto successo.
Jep Gambardella è un giornalista di una rivista di cultura, arte e moda di buon accreditamento e diffusione.
Jep Gambardella è, soprattutto, il signore indiscusso della mondanità notturna romana. Da quando è giunto a Roma all’età di ventisei anni sino al compimento del sessantacinquesimo anno di età, non ha trascorso notte senza partecipare, ravvivare ed essere il protagonista di feste, cene, aperitivi, cocktail, organizzati da una borghesia festaiola quanto annoiata, imbolsita e intristita dal Nulla.
Sono il Nulla, Il Niente, il Vuoto, l’Inconsistenza, l’Insostenibile Leggerezza dell’Essere, il tessuto connettivo, la ragione sociale, il leit motif, il canovaccio della vita di Jep e dei compari mondani.
Il prologo del film è girato proprio nella villa di Gambardella, dove si sta svolgendo la sua festa di compleanno: per dirla con Angelo Branduardi danze, colori e allegria, canti e rumori, suoni di risa.
La mattina dopo, però, nulla della tristezza, della malinconia, dell’angoscia, del senso di inutilità, è stato in alcun modo rimosso, anzi, a dir del vero, tutto si è accresciuto.
E così è ogni sera, ogni notte e, poi, ogni risveglio.
Un concatenarsi di smarrimento in una apparente ricchezza e giocosità.
E’ quella borghesia romana ingolfata in un benessere stantio e monotono, non frutto di fatica e di lavoro, ma di rendite e di ricchezza altrui che provengono dal passato, da altre mani, da altri sudori.
E’ quella borghesia progressista, sempre dalla parte giusta, sempre con le idee giuste, sempre con le parole giuste sulle labbra pronunziate nel momento giusto.
E’ quella borghesia che ha le sue radici nel ’68 e che viene scenicamente interpretata con efficacia da Francesca Neri, politicamente impegnata da studentessa, dedita alla carriera e all’indottrinamento del figlio secondo il corretto sistema valoriale che il politicamente corretto impone a questa sterile borghesia. Jep Gamabardella con poche, efficaci, potenti e dirompenti battute, che fuoriescono dalla sua bocca con elegante, aristocratica, nobile ferocia, smantella la signora il cui ruolo Francesca Neri ricopre abilmente.
La storia dell’impegno politico passato e dell’attuale capacità di essere donna e madre viene smascherata nella sua falsità e, tramite il suo disvelamento, viene messa alla berlina la borghesia dei salotti buoni, bigia e piena di soldi, arrogante nel porsi con gli altri, stravagantemente convinta di possedere una superiorità morale e culturale sulle genti, ma che, invero, consuma la propria esistenza nella assenza di valori autentici, idee vere, azioni concrete, obiettivi utili.
Jep sa questo, è cosciente che dalla pubblicazione del suo romanzo anni prima nulla ha più costruito il suo pur vivace ingegno, niente hanno più concepito la sua anima, il suo cuore, il suo intelletto, offuscati da una mondanità brulla, che gli brucia ogni serata e notata da decenni.
Jep vuole scomparire, come la giraffa (uno dei tanti elementi simbolici della pellicola) che un amico “mago” rende evanescente nell’ambiente.
Jep vuole dissolversi oppure ricominciare. Non si darà alla fuga al pari dell’ unico amico - raccontato da Carlo Verdone - disgustato da tanta inedia, da troppa superficialità e inganno, di cui la “fidanzata”(Anna della Rosa) è impareggiabile maestra, infame nel comportamento quotidiano, tatertyp della comune percezione della moralità delle tante ragazzotte che deambulano nottambule in ricerca del tutto e subito perché del domani non v’è certezza, idolatre dell’unico attuale dogma: denaro senza fatica e privo di etica.
Fra queste dame brillano per assenza di luce negli occhi la onnipresente a feste e cene Pamela Villoresi e, per ovvietà negli incontri sessuali, oramai riti scontati, Isabella Ferrari. Serena Grandi, nella suo truculento disfacimento fisico, fornisce plasticamente corporeità al vizio stratificato nel tempo.
Il personaggio interpretato da Verdone scappa disgustato e senza speranza, Gambardella no: rimane e cerca. Cerca qualche vibrazione che possa scuotergli cuore, riattivarli l’anima e galvanizzarne l’intelletto.
Non la trova certamente in un cardinale in predicato per il soglio pontificio (il sempiterno straordinario Roberto Herlitzka), pervicacemente attratto dalla goliardia terrena ed esperto dell’arte culinaria, irrimediabilmente allergico alla spiritualità: qui, nella rappresentazione cinematografica del principe della Chiesa, Sorrentino si avvicina sensibilmente agli stilemi propri delle opere di Fellini. L’aspetto lievemente luceferino dell’attore ben esprime l’assenza di religiosità dentro la coscienza dell’alto prelato.
La narrazione di questo cammino è punteggiato da scene improvvise, quasi subliminari, di suore che irrompono nella proiezione senza che tali apparizioni fuggevoli abbiano alcun senso, raffigurate in maniera ridanciana e un po’ volgare, quasi pasoliniana.
L’incontro con suor Anna in odore di santità traccia il confine fra un prima e un dopo.
Suor Anna è molto anziana e il regista la raffigura fisicamente simile a Madre Teresa di Calcutta, esasperandone però la rigidità dei movimenti, l’avvizzimento della pelle, il raggrinzimento dei tratti mimici, atteggiandola ad una mummia dalle fattezze somatiche incartapecorite. La suora non parla di povertà, ma la vive. E’ questo l’aspetto dirimente che separa l’ante con il post, lo “ieri” con il “domani”. I salotti radical chic fanno un gran parlare di miseria ma se ne tengono ben lontani, ingozzandosi di un quotidiano superfluo, andando a dormire mentre gli altri si alzano.
Forse per Jepi è il momento di andare, di riaccendere le passioni che molti anni addietro lo hanno spinto a scrivere e che una Roma, incupita da appartamenti illuminati dal baluginio della luce artificiale, ne ha spento lo scintillio interiore, quello che traduce le emozioni in parole, la tribolazione dei sentimenti in lettere: “Sprazzi di bellezza nel sottofondo del chiacchiericcio giornaliero - poeticamente declama Gambardella - mentre si è nell’imbarazzo di stare al mondo”.
L’umanità che lo ha accompagnato nel tempo, circondandolo di effimero, rimane inalterata e il commilitone di tanta esteriorità privata della bellezza, Carlo Buccirosso, il più pervicace mondano delle terrazze della Capitale, non cesserà di proferire il suo Te chiavasse a qualunque femmina intercetti nel suo percorso danzante.
Lo stormo di gru che si alza nel cielo di Roma tinto dei colori del tramonto primaverile-estivo, dopo un lieve soffio emesso dalla bocca di suor Anna, descrive allegoricamente l’ultima notte di un Jep Gambardella, che vergherà di nuovo su pagine vuote da troppi lustri nuove sensazioni, narrate alla luce del giorno, mentre la notte lo vedrà dormiente giacere sul suo letto, incurante della lugubre ed sempre eguale mondanità che persisterà sulle splendide terrazze del centro di Roma.
Ora Gepy conosce sentimenti nuovi, non attraversati necessariamente dall’obbligato rispetto del codice del sesso, ma che si realizzano in pienezza nello scambio di affetti fra lui e una spogliarellista romanaccia (Sabrina Ferilli), la cui grave patologia di cui è affetta determinerà anche un momento drammatico, rendendo La grande Bellezza difficilmente classificabile e susumibile entro una categoria specifica.
Gep Gambardella, ora, può aspirare alla Grande Bellezza, che trasparirà attraverso i pori di piazza di Spagna, di Trinità dei Monti, di piazza Navona e di via Veneto - non più teatro della sorniona dolce vita degli anni ’60 - , occhieggerà lungo quella linea sfocata che si intravede fra i tetti delle Basiliche e dei monumenti romani e il cielo e lo dirigerà, finalmente e fatalmente, verso un nuovo orizzonte.

Fabrizio Giulimondi






martedì 24 settembre 2013

"L'AMORE GRAFFIA IL MONDO" DI UGO RICCARELLI: VINCITORE DEL PREMIO CAMPIELLO 2013


  

 

 
L'amore graffia il mondo” del compianto Ugo Riccarelli (Mondadori), vincitore della ultima edizione del Premio Campiello.

Parole morbide, calde  e musicali, sinfonicamente orchestrate fra di loro, raccontano, con lo stile di un amarcord felliniano,  la vita di Signorina, ultima di cinque figli di primo e secondo letto,  e del suo papà, Delmo, capostazione di un paesino del torinese, socialista, le cui idee durante il ventennio lo inducono, per onore e dignità, a dimettersi.

Il racconto ripercorre l’occupazione di Abissinia, la guerra civile spagnola, la campagna di Albania e il conflitto mondiale. E poi il risorgere della vita, la ricostruzione, la libertà.

Signorina è una eroina, nobile d’animo, il cui amore travalica tutto ed è donazione totale di se stessa, perché una madre non è in grado di resistervi: “e allora gli si mise accanto e cercò inutilmente di ricacciare in gola il boccone d’amore che ancora una volta voleva uscire da lei, per spiegargli col linguaggio assurdo dei sogni quello che aveva capito, togliendosi con un gesto lento l’orrenda camicia da notte che le avevano messo in ospedale. Per mostragli il suo corpo nudo, graffiato, sanguinante. Guastato dall’amore”.

L’amore graffia: graffia l’incontro con la persona amata e  graffia il cuore di Signorina quando si imbatte in Beppe; graffia durante il parto, nel dare alla luce Ivo, figlio dell’atto di amore fra Signorina e Beppe e anche l’atto di amore graffia; graffia nel compimento dell’atto di morte dell’aborto, perché tanto Dio è come quei cacciabombardieri americani che lanciavano bombe su case, stazioni, vite, affetti, noncuranti dello strascico di annientamento che lasciano; graffia il respiro di Ivo, ruvido e corto, affetto da grave patologia polmonare, pur non sapendo la malattia che l’amore di una madre, l’amore incondizionato di Signorina, precederà i tempi e guarderà oltre, portando  due nuovi polmoni al figlio.

L’amore che porta alla pazzia. L’amore geniale riposto fra le dita di Signorina, sarta eclettica e abile e creatrice di modelli di gusto francese. L’amore che non lascia tempo alla disperazione.

Questo è un romanzo drammatico, triste, mesto, malinconico, inquieto, carico di illusioni e disillusioni, colmo di speranze e sgarberie della vita, pieno di sogni e magie infrante, pregno di fatica e stanchezza, di notti insonni e  occhi senza più lacrime, accusatore di un tempo traditore che giocherella con le persone, parimenti a quelle divinità greche, annoiate dall’inconcludente trascorrere dei lustri, mollemente impegnate ad intervenire, benignamente o malevolmente, nelle esistenze degli esseri umani.

Questo libro, però, non è mai disperato, mai cupo, mai rassegnato, perché vi regna sovrano quel sentimento chiamato  amore. L’Autore cerca “il modo in cui imprigionar la bellezza per riuscire a renderla visibile, concreta.”.

Amore e senso di colpa, forse perché non può esistere l’uno senza l’altro, forse perché l’uno è indissolubilmente intrecciato all’altro, nell’eterno contrasto fra la realizzazione di incantevoli capi di abbigliamento e il dover  Signorina seguire attentamente, giorno e notte, il figlio Ivo, mentre ha fame d’aria, mentre cerca un po’ di ossigeno da ingerire, da ingoiare: forse perché l’amore dato al marito e ad un figlio poteva essere donato anche ad un altro figlio, che dalla mano assassina di una mammana Signorina ha consentito che gli fosse  graffiato  via.

E’ storia di affetti delicati ed autentici, di intimità, di focolare domestico, di casa, di abbracci fra marito e moglie, fra padre e figlio, fra madre e figlio: ” Soprattutto mancava l’abbraccio rassicurante delle madri, dei genitori, dell’odore familiare della propria casa, del conforto delle proprie cose..

E’ narrazione di distruzione e di guerra, che tutto porta via e nulla rispetta. Sopraggiunge in alcuni passaggi una potenza descrittiva da mozzafiato e la loro  lettura provocano  brividi lungo la schiena e  strette allo stomaco e accelerazione dei battiti cardiaci: “grappoli di bombe che scendevano a spianare la stazione e a sfondare le case, a distruggere le cucine, i salotti, i bagni, le camere da letto e gli ingressi, ad aprire con maleducazione gli armadi e a gettare all’aria cinture, fazzoletti e sciarpe, mutande, bretelle e tutto quanto adesso si mischiava con i mattoni sbrecciati e i calcinacci, in un mucchio di rovine che fino a poco prima erano state le loro vite.”.

 

Ugo Riccarelli, che la terra Ti sia leggera!

 

Fabrizio Giulimondi

 

 

 

domenica 22 settembre 2013

"L'INTREPIDO" DI GIANNI AMELIO

Locandina L'intrepido
L’intrepido” di Gianni Amelio vede il felice ritorno sul grande schermo di Antonio Albanese che, dismessa la maschera di Cetto La Qualunque, indossa il volto buono e senza malizia di Antonio Pane, uomo che ama incondizionatamente lavorare, il lavoro, qualsivoglia tipo di lavoro. La crisi impera in Italia e Milano non sfugge da essa. Antonio Pane, in attesa di una occupazione  di maggiore durata e stabilità, fa il rimpiazzista, svolgendo per poche ore o giorni mansioni di ogni genere al posto di persone che, per malattia o altro, non possono temporaneamente esercitarle: operaio edile, “pupazzo vivente” per il divertimento dei bambini in un centro commerciale, aiuto cuoco in un ristorante, attacchino di manifesti, portatore di pizze a domicilio, conducente di tram, spazzino negli stadi, facchino in un centro di lavorazione dei pesci spada, non disdegnando neppure  di fare il sarto.
Antonio pane ama qualunque cosa compia e la sera quando torna a casa sereno e senza traccia di stanchezza, impegna il residuo tempo serale per prepararsi  per un concorso pubblico, dove incontrerà Lucia.
Lucia è come il figlio di Antonio Ivo – sassofonista talentuoso  sofferente  però di attacchi di panico prima di ogni esibizione pubblica - inquieta, rabbiosa e insoddisfatta.
Il contrasto è fra il viso solare e sempre pieno di fiducia nell’altro e nell’avvenire di Antonio e le facce contratte e rabbuiate di Lucia ed Ivo, scontro fisiognomico e mimico fra due generazioni: la prima combattiva e speranzosa; la seconda rassegnata, priva di carattere ed eternamente incazzata.
Incompiuto in alcuni momenti, quando Antonio vede scomparire in un bosco  accanto ad uno sconosciuto un ragazzino che pensava di aver  accompagnato da un  parente, il film è spesso tiepido e, talora, velatamente sentimentale, con un Antonio Albanese indubbiamente  abile nel giocare con le  proprie capacità espressive e di gesticolazione, dote che non può certamente essere riconosciuta ai suoi colleghi di scena.
Fabrizio Giulimondi


martedì 17 settembre 2013

"RAGAZZE DI CAMPAGNA" DI EDNA O'BRIEN


  
Ragazze di campagna
 

 
“Ragazze di campagna” di Edna O’Brien (Elliot editore), probabilmente la più autorevole scrittrice inglese contemporanea a giudizio di Philip Roth, racconta la storia di due ragazze irlandesi poco più che adolescenti, Caithleen e Baba:  dolce, rigorosa e romantica la prima, quanto  carogna, scarseggiante di etica e calcolatrice la seconda.

Caithleen perde la madre a cui è molto legata e va a vivere sotto il tetto della famiglia di Baba. Sottoposta alle angherie dell’amica Caithleen, ottenuta  una borsa di studio per l’accesso agli studi superiori, sempre con la lucignolesca lifemate vicino, impegna alcuni anni in un monastero di suore. Da tale luogo  sarà cacciata, ovviamente a causa delle strampalate pensate della  arcigna amica-nemica.

In virtù della medesima borsa di studio la protagonista (Caithleen) e la “spalla” (Baba) si recheranno  nella agognata  “metropoli”, ossia Dublino. Lì conosceranno una esistenza  più “accesa”, vita  alla quale la nostra Caith non è proprio adatta.

Una entusiastica  critica ha accolto questo romanzo: “Ragazze di campagna è un libro bellissimo, bellissimo, bellissimo”; ”Un manuale di anatomia dell’anima. Ogni parola, ogni aggettivo, ogni frase sono così essenziali che non riesci mai a distrarti neanche per due righe”; ”Ribollente di sensualità ma pudico nel linguaggio”; ” Le piccole donne in cerca di libertà di Edna O’Brien continuano ancora oggi a raccontare qualcosa di eterno”; “Uno scandaloso puzzle di desideri femminili”.

Nel leggere questo libro, indubbiamente bello, ricco di un delicato fraseggio e affascinanti aggettivazioni, il lettore si renderà  agevolmente  conto  di quanto queste riflessioni – specie le ultime -   siano in tutto o in parte prive di radici nella narrazione.

Fabrizio Giulimondi

venerdì 13 settembre 2013

"LA VERITA' SUL CASO HARRY QUEBERT" DI JOEL DICKER

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Un capolavoro! Un libro che va ben oltre la bellezza ordinaria così come viene comunemente concepita! Un libro a cui spero venga tributato il più elevato  di tutti i premi letterari: il Nobel per la letteratura 2013.

Joel Dicker non è solo uno scrittore, non è solo geniale nel comporre le parole, nel combinarle insieme, nello strutturare le frasi e i periodi, nella sinfonia stilistica che ne scaturisce  e che travolge il lettore lasciandolo senza fiato, ma possiede anche  la capacità di far entrare in  ottocento pagine senza che il lettore stesso se ne accorga, perché surferà  fra parole ed espressioni e frasi e periodi e stilemi e suoni come in un mare prima piatto, poi lievemente increspato, poi mosso ed ondoso e, infine, violentato  da brutali marosi. La verità sul caso Harrry Quebert” (Bompiani) rimarrà nella storia della letteratura europea e mondiale come uno dei più straordinari romanzi che siano stati  partoriti.

Ha ricevuto il Prix des escivains genevois nel 2010, il Grand Prix du roman de l’Academie francais 2012 e il Prix Goncourt des lyceens 2012,  ma il Nobel  necesse est conferirglielo.

Un bel libro, Marcus, non si valuta solo per le sue ultime parole, bensì sull’effetto cumulativo di tutte le parole che le hanno precedute. All’incirca mezzo secondo dopo aver finito il tuo libro, dopo averne letto l’ultima parola, il lettore deve sentirsi pervaso da una emozione potente; per un istante, deve pensare soltanto a tutte le cose che ha appena  letto, riguardare la copertina e sorridere con una punta di tristezza, perché sente che quei personaggi gli mancheranno. Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito.”.

Questo è “La verità sul caso Harrry Quebert”: portentoso, unico, avvincente, strepitoso, non smetterete  di leggerlo finché non sarete giunti all’ultima pagina, all’ultima frase, all’ultima parola, per esserne tramortiti, e persisterà in Voi  un leggero, sottile senso di malessere misto a tenerezza.

Sarete presi da una spasmodica ansia che si placherà soltanto con la lettura. E, per dirla con Stephen King, questo lavoro Vi darà  assuefazione perché avrà sul lettore un effetto drogante,  determinando talora una sorta di apnea, perché la lettura procederà spasmodica, in preda ad emozioni vorticose e senza pelle. Nessun accadimento è come sembra, nessun personaggio come appare, nessuna figura secondaria o di comparsa, perché tutte sono protagoniste, chi è sullo sfondo è in realtà attore principale, le controfigure sono figure stesse, ciò che è indistinto è in realtà  marcato con un evidenziatore dalla colorazione accesa.

Non esiste personaggio che non Vi prenderà e non Vi assorbirà: nessuno risulterà indifferente! Li odierete o li amerete, ne avrete  disprezzo o amore viscerale, urlerete o piangerete, vorrete  insultarli o accarezzarli e confortarli,  ma Vi coinvolgeranno ineluttabilmente tutti!

La madre dello scrittore Marcus Goldman è una macchietta talmente ridicola nel parlare e nell’atteggiarsi che strapperà più di un bonario sorriso.

La madre di Jenny, Tamara,  è di un becero provincialismo.

Più volte riderete e  più volte Vi  commuovere,  perché è l’amore  il vero, reale, unico leit motiv della narrazione e la trama ne è immersa, inzuppata. E’ un  amore illecito, illegale, ma puro, autentico, scevro di sordidi interessi, senza alcun impudico retroscena: in sottofondo c’è Lolita di Nabokov, L’amante di Marguerite Duras, ma senza sensazioni di oscenità, privo di  tracce  di morbosità: l’amore fra una quindicenne e un trentaquattrenne, un grande autore di romanzi letti in tutto il Nord America, Herry Quebert,  Maestro di vita e di arti letterarie di Marcus Goldman.

La verità sul caso Harrry Quebert -  se vogliamo - è un giallo pregno di mistero, suspance e improvvisa azione senza tregua, ma soprattutto un nobile, delicato e struggente racconto sull’amore e sui tormenti che esso produce: “Adora l’amore, Marcus. Fanne la tua conquista più bella, la tua sola ambizione. Dopo gli uomini, ci saranno altri uomini. Dopo i libri, ci sono altri libri. Dopo la gloria, ci sono altre glorie. Dopo il denaro, c’è ancora il denaro. Ma dopo l’amore, Marcus…Dopo l’amore , c’è solo il sale delle lacrime.”.Sì,  è un romanzo thriller, d’azione, ma in realtà non è così, è unicamente un inganno, perché è un libro sui sentimenti, quelli veri, quelli che dilaniano, quelli che  cambiano: “Poi un giorno scoprono l’amore, senza neanche volerlo, senza rendersene conto. E gli esplode in faccia. E’ come l’idrogeno quando entra in contatto con l’aria: provoca un’esplosione pazzesca, che travolge tutto. Trent’anni di matrimonio frustrato che scoppiano tutti in una volta, come se una gigantesca fossa biologica raggiungesse il punto di ebollizione ed esplodesse, inzaccherando tutti quelli che stanno introno…in realtà significano solo scoprire troppo tardi la portata del vero amore e assistere allo sconvolgimento che porta nella propria  vita.”.

E’ uno amore tragico, totale, shakespeariano;  al pari del  dietro le quinte di tutte le figure che compaiono, singolarmente o coralmente, nel proscenio del romanzo, ognuna di esse con  un sapore pirandelliano;  come in alcuni momenti della storia fa capolino, per poi divenire ruggente, la visuale  psicologica e psichiatrica degli uomini e  donne raccontata nei film di  Alfred Hitchcock.

Questa opera affascinante e vincente dà respiro e vita e corpo agli insegnamenti dei grandi Autori greci: la letteratura e l’arte nella sua interezza hanno il compito  di rendere migliori  gli esseri umani: La verità sul caso Harrry Quebert, grazie alle mani, all’intelletto,  al cuore e all’anima di Joel Dicker, realizza questo miracolo.


Fabrizio Giulimondi

martedì 10 settembre 2013

FABRIZIO GIULIMONDI INVITA ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI CLAUDIO MARSILIO "MURI IN CAMICIA NERA"


 

 
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Assessorato alla Cultura

e Biblioteca

 

  

 

 

 

                                              

 

Venerdì 20 settembre 2013 - ore 18.00

Provincia di Pescara - Sala Figlia di Jorio - Palazzo della Provincia

 

 

presentazione del libro di Claudio Marsilio

Muri in camicia nera (Le fatidiche frasi del ventennio fascista incise sulle mura degli edifici pubblici e dei negozi, di cui una buona parte si rinvengono in Abruzzo)
 
Una delle immagini di Muri in camicia nera

 

Con l’Autore, ne parleranno:

Raffaele Giannantonio (Università "G. d'Annunzio"), Enzo Fimiani (Direttore Biblioteca Provinciale), Licio Di Biase (Biblioteca Provinciale) e Fabrizio Giulimondi (Università "G. d'Annunzio").

Parteciperà il Professore Emerito Francesco Mercadante.

 

 

Saluti istituzionali:

Guerino Testa

(Presidente Provincia di Pescara)

Fabrizio Rapposelli

(Vicepresidente Provincia di Pescara e Assessore a cultura e biblioteca)

domenica 8 settembre 2013

"L'ULTIMO BALLO DI CHARLOT"DI FABIO STASSI: SECONDO POSTO AL PREMIO CAMPIELLO 2013


Lo scorso 24 giugno, nel recensire il romanzo di Fabio Stassi "L'ultimo ballo di Charlot", ritenni che meritasse di vedersi aggiudicato il Premio Campiello 2013, o almeno di rientrare nella terna dei vincitori. Ebbene, la  cinquantunesina edizione del Premio Campiello è stata vinta dal compianto Ugo Riccarelli con "L'amore graffia il mondo", mentre il secondo posto è stato riconosciuto proprio a "L'ultimo ballo di Charlot" diFabio Stassi.
Pubblico di nuovo la recensione già al tempo inserita in Rubrica.
Fabrizio Giulimondi
 
 

Mi auguro che l’ultima fatica letteraria di Fabio StassiL’ultimo ballo di Charlot” (Sellerio editore) si aggiudichi il premio Campiello 2013 o, almeno, si posizioni nella terna.

Mai libro condensa nel finale potenza espressiva, parole vibranti, espressioni di così forte commozione, come  “L’ultimo ballo di Charlot”. Mai, come in questo romanzo autobiografico, pur non essendo l’autore Charlie Chaplin, la narrazione tutta, il corpo del racconto nella sua interezza, vive e si sviluppa per il finale: l’epilogo è il libro, è il romanzo, è il racconto, è la storia stessa.
La narrazione prende le forme di epistole di Charles al figlio quindicenne Christopher, con un andamento musicale, orchestrata in quattro movimenti: allegretto, adagio, andante con variazione e finale
Stassi è riuscito ad entrare nel personaggio Chaplin - Charlot in maniera così completa e coinvolgente, si è insinuato negli anfratti maggiormente  nascosti dell’animo del grande Regista e Comico, da creare un’ opera che chiunque potrebbe  immaginare essere stata scritta da Charlie Chaplin in persona.
Tecnicamente sarebbe corretto definirlo un romanzo biografico, ma in realtà è più giusto  qualificarlo un romanzo autobiografico, perché Stassi scrive con mani proprie ma con gli occhi e il cuore di Chaplin - Charlot.
Un giorno senza sorriso è un giorno perso”: la filosofia di vita di Charlie Chaplin, una visione che porta a far ridere anche la Morte, la cui intercalante presenza nella trama del libro è un artifizio splendido dell’Autore che cadenza come un metronomo l’incedere narrativo.
Ogni 25 dicembre degli ultimi sei anni terreni di Charlie Chaplin la Morte ossuta, avvolta nel suo manto nero, gli va a fare visita per condurlo con sé, ove egli non vuole andare. La maschera più conosciuta al mondo la sfida: “Se ti farò ridere tu non mi farai morire!” “Impossibile – disse la Morte – io sconosco il riso!”. Impossibile agli uomini, non a Charlot. Per sei anni Chaplin avrà salva la vita e continuerà ad arricchire l’Umanità con la sua magnificenza: “Suscitare il riso e le lacrime è stata infantile protesta contro la miseria, la malattia e il disprezzo, e il mio rifiuto dell’odio e di tutte le forme sbagliate che finiscono per governare le relazioni umane.”.
La Morte in “L’ultimo ballo di Charlot” è quella che gioca a scacchi ne Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, è quella che danza in Ballo in fa diesis minore di Angelo Branduardi, che si trastulla palleggiando con un grande mappamondo con Chas (Chaplin per gli amici), nello stesso atteggiarsi di Charlie nelle vesti di Hitler ne Il Grande dittatore.
Fra un incontro e l’altro con l’Oscura Ossuta viene narrata l’esistenza del regista – attore – comico – circense - pagliaccio, del suo peregrinare fra il Regno Unito e Los Angeles e fra la California e l’Ohio, del suo passare da un mestiere all’altro, da impagliatore a  fabbricante di candele, da tipografo a  boxeur, per infine approdare nel mondo del circo, il suo mondo, humus insostituibile e immutabile della impetuosa e inarrestabile carriera cinematografica di Charlie Chaplin e della sua intramontabile controfigura Charlot.
Charlot, insieme a Stanlio e Ollio e al nostrano Totò, darà vita al Cinema, sarà il Cinema, incarnerà la Comicità, tanto che, quando una  Morte sconsolata lo condurrà dove egli oramai vuole andare, affranta affermerà: “Oggi con te muore il Cinema!”. Finisce un  Cinema, rappresentazione del circo, dove alla allegria si mischia la tristezza, si sorride mentre una lacrima riga il volto: ”Dicono che l’universo sia nato da una grande e incomprensibile esplosione. Secondo me, deve essere successo sulla pista di un circo. Una donna volteggiava in aria e un uomo ne catturò il movimento in una scatola magica, e lo riprodusse all’infinito, fino a popolare di ombre la terra, e a riempirla di segatura, di risate, di lacrime. Non può che essere andata così, Christopher, perché solo nel disordine dell’amore ogni acrobazia è possibile”.
Nel disordine dell’amore ogni acrobazia è possibile.
Fabrizio Giulimondi
 

 

giovedì 5 settembre 2013

CHE LA TERRA TI SIA LEGGERA

"IL GIORNO DOPO DOMANI" DI ALLAN FOLSOM


 

 
Copertina anteriore
 

Alcuni lo hanno definito “Un thriller memorabile”, altri “Un best seller mondiale”, “Il giorno dopo domani”, di Allan Folsom (Tea) è sicuramente un romanzo che dal 1994 continua ad essere letto da molti esseri umani sparpagliati per le variegate aree geografiche del nostro pianeta.

Cinquecentonovantanove pagine di colpi di scena, mis en scene, coupe de theatre, plot twist, continui, ininterrotti, instancabili, senza soluzione di continuità.

Omicidi, crimini, assassini, ammazzamenti a profusione: chiunque ha  a che fare in qualsivoglia modo con l’”Organizzazione”.

McVey, l’ispettore di Los Angeles aveva trovato sempre al termine delle proprie indagine un INDIZIO DECISIVO “Ma non quella volta. Quello era un cerchio con un inizio e nessuna fine. Proseguiva all’infinito. Più informazioni raccoglievano, più il cerchio si ingrandiva, e quello era quanto.”.

Il fatto che McVey si stava imbattendo con uomini per i quali uccidere era solo un dettaglio come Von Holden: “Das ist meine Pflicht ripeté, levando gli occhi alle stelle. Il dovere al di sopra di tutto! Al di sopra della Terra, Al di sopra di Dio. Oltre il tempo.”.

E poi v’è la Premonizione , la Vorahnung.

E poi Osborn, che a dieci anni ha visto il padre cadergli davanti colpito da un colpo di pistola: perché avevano eliminato il padre? erano trenta anni che se lo chiedeva!

E poi v’è un nome in codice UBERMORTGEN, il Giorno Dopo Domani,  che porta con sé corpi ritrovati senza testa e teste ritrovate senza i corpi. Fra queste ve ne è una posta in  una teca: a chi appartiene?

 

Fabrizio Giulimondi

 

martedì 3 settembre 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: RELAZIONE SUL FENOMENO DEL "TERRORISMO" ESAMINATO SOTTO LA VISUALE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE, EUROPEO E COMPARATO


·        Premessa

Nelle ultime decadi, un gran numero di strumenti giuridici in materia di terrorismo internazionale sono stati prodotti, con un'impennata della attività normativa  tanto internazionale quanto nazionale  dopo i tragici eventi dell'11 settembre 2001.


Non che sia facile, in questo momento, immettere norme nel tessuto connettivo ordinamentale interno, comunitario ed internazionale, in questa materia, tanto più che già prima il fenomeno mal si prestava ad essere combattuto con i  soli mezzi di contrasto del diritto penale: la storia non si presta facilmente ad essere compressa nelle aule di giustizia.
L'azione terrorista può legarsi a qualsivoglia obiettivo, ideologia politica o concezione religiosa (purtroppo non solo a quella  islamica o Sik ma anche a quella cattolica che è stata posta alla base della “guerra”  - per fortuna cessata -  dell’I.R.A. in Irlanda del Nord avverso l’esercito unionista) e,  indifferentemente, ad un determinato territorio o nazione, nonché costituire il braccio armato di movimenti di liberazione nazionale, ovvero avere le caratteristiche di rete terroristica transnazionale.

Il fenomeno terroristico esprime  sempre più un altissimo livello di pericolosità: l’incidenza delle condotte  terroristiche sulla sicurezza delle popolazioni, invero, è aumentata in presenza  di una serie di condizioni, non ultime la vocazione dei terroristi a suicidarsi (riprendendo la tradizione scintoista praticata in Giappone durante la seconda guerra mondiale dai kamikaze) per portare lo sterminio fra la popolazione civile inerme (prevalentemente donne e bambini), oltre l’utilizzo del progresso tecnologico.


Gli Stati hanno  in qualche maniera  perso il monopolio della minaccia agli altri Stati: la sfida proviene da singoli  individui o reti che agiscono a livello sub-statale e non territoriale, che utilizzano materiali e risorse che sfuggono al monopolio statale.

L’aggravamento della minaccia terroristica ha riflessi di non poco momento sulla  repressione di ordine penale, ponendola sempre più in contatto la materia giuspenalistica  con gli interventi di ordine militare.

È diventato arduo, inoltre, individuare quale siano gli Stati legittimati a procedere contro i terroristi. Si sono fatti evanescenti i criteri di collegamento  territoriale per il corretto esercizio della giurisdizione, tendendo a ridursi ad uno: quello della nazionalità delle vittime.

In alternativa a questo percorso la Comunità internazionale provvede alla istituzione di organi giurisdizionali sopranazionali.  


Vi è, poi, il modo in cui la Comunità internazionale ed i singoli Stati hanno affrontato la questione della individuazione e della punizione dei colpevoli. È noto come l'emergenza abbia indotto alcuni Stati, segnatamente  gli Stati Uniti, a trovare vie di cooperazione diverse da quelle tradizionali, soprattutto in materia d'estradizione,  e come tale approccio abbia incontrato resistenze nei Paesi europei, anche a causa della istituzione, negli USA, di tribunali speciali per i crimini di terrorismo. La stessa applicazione della pena capitale in molti Stati della Confederazione statunitense rappresenta  non solo per l'Italia un  ostacolo all'estradizione attiva verso gli USA.
Quanto alla Comunità internazionale, essa ha risposto all'attacco massiccio del terrorismo in modo imponente. Anche qui non sono mancate, tuttavia, le polemiche, vuoi legate all'organismo da cui promanano gli strumenti apprestati, vuoi legate alla rigidità di questi ultimi.
Sotto il primo profilo, si è lamentato che la reazione delle Nazioni Unite alla minaccia terroristica si sia fondata quasi esclusivamente su Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza: non sono pochi a ritenere che quest'ultimo, nel disporre in materia di terrorismo, abbia applicato in modo troppo estensivo il concetto di tutela della pace e della sicurezza mondiale, così operando una vera e propria invasione di campo ai danni della Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Sotto il secondo profilo, è stato soprattutto il sistema del congelamento dei beni dei terroristi,  unitamente alla  redazione delle liste di terroristi (ricordo sommessamente che Hamas che ha ministri nel governo della Autorità palestinese e il braccio politico di  Ezbollah che ne ha nel governo libanese sono in questa lista) da parte del Comitato sanzioni del Consiglio di sicurezza e del Consiglio dell'Unione europea,  a suscitare rilievi. Le critiche investono in particolare l'automatismo del meccanismo del congelamento e l'impossibilità, per le autorità nazionali amministrative e giudiziarie, di compiere qualsivoglia valutazione sulla congruità dell'inserimento del soggetto nella lista.
Le prime difficoltà stanno sorgendo anche a livello nazionale, nel momento in cui la legislazione introdotta nel dicembre 2001 comincia ad entrare nella fase applicativa. Il concetto di ''associazione terroristica di stampo internazionale'', in particolare, non ha ancora trovato una certa definizione sistemica: l'interpretazione di questa figura criminosa a partire dall’orrore dell'11 settembre divide i nostri tribunali degli ordinamenti statuali, soprattutto per quanto riguarda l'elemento dello scopo terroristico, che per alcuni deve esternarsi nel proposito serio e preciso di compiere atti di violenza determinati, mentre per altri  può avere carattere generico.










Il fenomeno del terrorismo, in aggiunta a questioni politiche, etiche e di strategia militare, solleva numerose questioni di diritto, che spesso trovano il loro presupposto nella questione della definizione.
Il tema è antico, ma torna periodicamente d'attualità: dopo i tragici eventi delle Twin Towers molto si è dibattuto se tutti i Talebani, e non soltanto i militanti di Al Qaeda, dovessero considerarsi terroristi. Gli accadimenti degli ultimi mesi e gli studi sulla  struttura sociale delle comunità talebane dimostrano che esse sono tutte composte da tribù ricollegabili alla etnia pastun, tutte unite nel credo islamico fondamentalista, codificato nel “decalogo” dei divieti e dei doveri del buon mussulmano -  “decalogo” che incarna il diritto talebano che ha regolato  la vita della popolazione afghana sino all’intervento bellico nel novembre 2011 -  e tutte praticanti la metodologia terroristica  tradizionale( sequestri e taglio della gola) e moderna (kamikaze e uso di armi da guerra, anche di potenza micidiale). Sicuramente i talebani sono terroristi che per cultura e tradizione si differenziano dalla pratica del terrore  islamica fondamentalista siriano – iraniana e arabo – palestinese, non appartenendo né all’area culturale – religiosa  sciita né a quella sunnita.

   Ad ogni modo solo i più oltranzisti tra i paesi islamici, oramai, rifiutano di considerare atti di terrorismo gli attacchi contro civili operati dalle 'bombe umane' palestinesi, afghane o irachene (con una robusta partecipazione da parte dei servizi iraniani) ma è significativo ricordare che fu proprio la qualificazione dei kamikaze palestinesi come terroristi ad impedire ai Paesi membri dell'Organizzazione della Conferenza Islamica nell'aprile del 2003  di accordarsi su di una definizione flessibile del fenomeno, idonea ad includere i palestinesi suicidi.


Sul piano del diritto internazionale, il punto è cruciale: dire che cosa si intenda per terrorismo significa stabilire i confini del fenomeno, con riferimento non solo ai reati comuni dello stesso tipo  omicidio, sequestro di persona, etc.  ma anche, e soprattutto, rispetto a condotte che il diritto internazionale considera  legittime se compiute da Stati sovrani.


La questione della definizione di terrorismo costituisce, a ben vedere, il presupposto di qualsiasi analisi di diritto internazionale condotta in questo settore: ad esempio,  se gli atti di terrorismo siano in sé 'illegali' secondo il diritto internazionale, e su quali basi; in quali circostanze uno Stato  vittima possa legalmente rispondere con le armi ad atti di terrorismo e nei confronti di chi; quando ci si trova innanzi ad un terrorista individuale, ad uno Stato che sostiene l’azione terroristica (c.d. “Stati  canaglia”),  ovvero che semplicemente la tollerano. In sintesi: quando l'uso  della forza militare in campo internazionale sia legittimo.


È, qui, coinvolta la delicatissima questione della giustificabilità degli atti di terrorismo, anche da un punto di vista strettamente penale: si pensi al rilievo della questione della motivazione politica della condotta ed alle conseguenze in tema di estradizione. I fatti dell'11 settembre 2001 hanno, d'altra parte, determinato l'accelerazione di un processo che era già in atto sul piano internazionale, e che si risolve nella caduta di una serie di barriere, in materia soprattutto di cooperazione giudiziaria e di diritto di asilo, nei confronti di chi venga considerato 'terrorista' e, nell'applicazione di tutta una serie di sanzioni  non di natura bellica (congelamento dei beni, embargo ecc.) nei loro confronti.
   Va, infine, ricordato che l'armonizzazione delle legislazioni è momento fondamentale della lotta al crimine: le strutture che operano a livello internazionale, con basi in diversi Paesi, sfruttano i vuoti giuridici spesso derivanti dai limiti geografici delle indagini; inoltre, le differenze nella costruzione dei reati costituiscono un serio ostacolo alla cooperazione giudiziaria e di polizia: basti pensare al fatto che la doppia incriminabilità è considerata condizione indispensabile di molte forme di assistenza giudiziaria e di estradizione.


Astrattamente, non è difficile costruire una definizione di terrorismo. Essa dovrebbe includere tre elementi essenziali: a) violenza (attuale o minacciata); b) obiettivo 'politico' (anche se misto ad una spinta religiosa) comunque concepito; c) 'audience' tendenzialmente vasta (supportata da un abile uso del mezzi di comunicazione di massa, incluso l’”odiato” internet).


La definizione di 'atto di terrorismo' potrebbe, quindi, essere, più o meno, la seguente: "minaccia o uso di violenza con l'intento di causare timore in un determinato gruppo di persone, al fine di conseguire un obiettivo politico".
Questo è, in effetti, a grandi linee, lo schema seguito nelle legislazioni nazionali, rispetto alle quali, in ogni caso, la questione della definizione di terrorista, atto terroristico, finalità terroristica difficilmente costituisce un problema: a livello interno è facile intendersi, perché il parametro è costituito dai soggetti o organizzazioni che, in quel determinato momento storico, esercitano una minaccia qualificata contro quello Stato ( ad es. in Italia le Brigate Rosse o l’Eta in Spagna). La questione sarà, nei casi concreti, risolta dagli interpreti. Questo è il motivo per cui i legislatori nazionali sovente non sentono neppure il bisogno di definire il fenomeno.
L'elemento della finalità politica è di indubbia essenzialità, perché consente di distinguere l'atto di terrorismo da analoghi reati comuni (ad esempio dagli omicidi di un serial killer). Tuttavia, è assai raro riscontrarne la presenza non solo negli strumenti internazionali (convenzionali o no), ma anche nelle legislazioni antiterrorismo nazionali.

·          La Decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro il terrorismo


La Decisione quadro non fu emessa allo scopo di fornire una definizione di terrorismo, che servisse da modello per i Paesi dell'Unione Europea: la finalità di tale Atto era l'armonizzazione delle legislazioni nazionali, affinché le divergenze tra le normative non costituissero un ostacolo nella cooperazione giudiziaria e di polizia per reati di terrorismo. In qualche modo, tuttavia, può dirsi che l'Unione Europea si è indirettamente inserita   con questo strumento  nel dibattito sulla definizione di terrorismo.


La base giuridica della Decisione quadro è costituita dall'art. 31 lett. e)  e dall'art. 34, paragrafo 2, lettera b) del Trattato sull'Unione Europea. Essa, come tutti gli strumenti di questo tipo, è ''vincolante per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salve restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi.


Al momento in cui fu emesso il provvedimento, si riscontravano, in effetti, notevoli divergenze nelle legislazioni nazionali dei Paesi membri, tuttora in parte esistenti: alcuni Stati non hanno norme specifiche in materia di terrorismo e sanzionano gli atti terroristici come reati comuni; altri hanno leggi nelle quali i termini "terrorismo" o "terrorista" compaiono esplicitamente, senza definizioni di sorta.   Tale è il caso della Germania e dell'Italia (ove, peraltro, si fa anche riferimento alla ''eversione dell'ordine democratico''). In altri casi si utilizzano, per indicare il fenomeno terrorismo o la finalità terroristica, circonlocuzioni di vario tipo: il codice penale francese fa riferimento ad atti che turbano gravemente l'ordine pubblico con l'intimidazione o il terrore; il codice penale portoghese parla di pregiudizio agli interessi nazionali, di alterazione o sovvertimento del funzionamento delle istituzioni di Stato, di costrizioni nei confronti delle pubbliche autorità e di intimidazioni alle persone o alla popolazione. Il codice penale spagnolo, similmente a quelli francese e portoghese, allude alla finalità di sovvertire l'ordine costituzionale e di turbare gravemente la pace pubblica.


La legislazione del Regno Unito in materia, il Terrorism Act del 2000, è probabilmente quella che affronta il tema in modo più compiuto e sistematico. Il terrorismo vi è definito come un'azione o una minaccia d'azione mirata a "influire sul governo o a intimidire la popolazione o una parte di essa", con "l'azione o la minaccia d'azione compiuta allo scopo di promuovere una causa politica, religiosa o ideologica". Tale azione deve comportare "violenze gravi contro una persona", "gravi danni ai beni" o determinare ''un grave rischio per la salute e la sicurezza della popolazione o di una parte della popolazione".  


La Decisione quadro si applica a tutti i reati di terrorismo preparati o commessi all'interno dei confini dell'Unione Europea, indipendentemente dal loro obiettivo, compresi gli atti terroristici contro gli interessi di Stati che non sono membri dell'Unione Europea, ove compiuti sul territorio dell'Unione. Da questo punto di vista, la Decisione riflette pienamente l'impegno della Unione Europea nella lotta contro il terrorismo a livello mondiale, e non soltanto nel proprio limitato ambito.
Questo provvedimento non contiene soltanto articoli in tema di definizione di reati terroristici e sanzioni, ma anche disposizioni in materia di cooperazione giudiziaria, di scambio di informazioni, di protezione ed assistenza alle vittime, all'art. 1 fornisce un ampio elenco di reati terroristici, imponendo agli Stati membri l'obbligo di garantire che essi siano puniti come tali.
La maggior parte di tali condotte è già considerata come reato nei codici penali degli Stati membri, ma sovente, come detto, è considerata reato comune. La Decisione quadro impone che, quando tali condotte sono compiute intenzionalmente da un individuo o un'organizzazione contro uno o più paesi, le loro istituzioni o popolazioni (intendendo per popolazioni anche le minoranze) a scopo intimidatorio e al fine di sovvertire o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali di tali paesi, tali reati siano considerati reati terroristici. Si è, in tal modo, con riferimenti testuali sia a legislazioni degli Stati membri, sia a convenzioni internazionali, tentato di offrire una definizione della cosiddetta 'finalità politica', elemento di indubbia essenzialità in questa materia, poiché consente appunto di distinguere l'atto di terrorismo da analoghi reati comuni.

D’altronde è il “movente”politico l’elemento essenziale, anzi unico, che muove l’azione terroristica. L’azione terroristica si identifica con lo scopo politico. L’azione terroristica è modalità di azione politica, è politica “pura” che si esplica e agisce per il tramite del mezzo violento. I terroristi concepiscono la politica come violenza e l’imposizione della propria visione politica manu militari. Scindere il fenomeno terroristico dalla sfera della politica è un non senso ed è irrealistico. Il terrorismo islamico l’11 marzo 2005 ha probabilmente scelto il governo di Madrid: è un dato di fatto, avvalorato dai politologi, che Zapatero non avrebbe mai vinto le elezioni se Al Qaeda non avesse messo le bombe alle stazioni madrilene e Aznar non avesse spudoratamente mentito sulla matrice interna della loro collocazione.

 Molte volte le organizzazioni terroristiche possiedono una raffinata capacità e strategia  politica , tanto che,  prima di agire , studiano dettagliatamente la situazione politica, partitica, sindacale, economica, sociale e finanziaria dello Stato ove vogliono compiere la propria opera distruttiva.
 Tra le condotte rilevanti figurano, anche se solo minacciate: l'omicidio; le lesioni personali gravi; i sequestri di persona; la cattura di ostaggi; le distruzioni di vasta portata di strutture pubbliche o private (ove potrebbero rientrare gli atti di violenza urbana), di infrastrutture, compresi i sistemi informatici, nonché mezzi di trasporto; la fabbricazione e fornitura di armi o esplosivi, comprese le armi atomiche, biologiche e chimiche; la diffusione di sostanze contaminanti; gli incendi, le inondazioni o esplosioni; l'interruzione della fornitura di acqua, energia o di altre risorse fondamentali.


Come si vede, sono prese in considerazione anche condotte, come quelle contro l'ambiente, meno violente di quelle che attentano direttamente alla vita ed alla integrità della persona, ma, tuttavia, potenzialmente altrettanto dannose.
L'art. 2.2 prevede la punibilità delle condotte di direzione, partecipazione e finanziamento, in qualsiasi forma, di una organizzazione terroristica.
Di essa si fornisce al comma 2,1 una definizione che riprende il testo dell'Azione Comune 21 dicembre 1998 relativa alla incriminazione ed alla partecipazione ad una associazione criminale: organizzazione strutturata, di più di due persone, stabile nel tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere dei reati terroristici. La formulazione di questo comma lascia agli Stati membri la facoltà di decidere come definire esattamente il reato di partecipazione ad organizzazione terroristica: non è facile, in effetti, fornire una definizione di associazione criminale valida per tutti i Paesi europei: qui si trattava, invero, di armonizzare le legislazioni di ordinamenti i sia di civil law, cui è nota la figura della 'association de malfaiteurs', e di common law, che non conoscono nei loro sistemi l'associazione per delinquere, ma solo la 'conspiracy', istituto che sta a metà strada tra l'associazione per delinquere ed il concorso di persone nel reato.


   La Decisione quadro del Consiglio è mezzo normativo quanto mai opportuno, dal punto di vista della facilitazione della cooperazione giudiziaria e di polizia tra gli Stati europei in materia di terrorismo,  aggiungendosi ad altri importanti atti giuridici europei specificamente rivolti – talora in via esclusiva, talora assieme ad altri gravi reati – alla lotta al terrorismo. Vanno richiamati in particolare la Decisione Quadro del Consiglio relativa alle squadre investigative comuni (13 giugno 2002); la convenzione Europol , la cui competenza fin dal 3 dicembre 1998 si estende anche ai reati di terrorismo, ed all'interno della quale il 21 settembre 2001 è stata costituita una squadra specializzata in materia di lotta al terrorismo; la Decisione del Consiglio 28 febbraio 2002 relativa alla costituzione di Eurojust; la Decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d'arresto europeo ed alle procedure di consegna tra Stati membri del 13 giugno 2002.
   Tra gli strumenti preesistenti all'11 settembre, ma di rilievo nella lotta al terrorismo, vanno richiamate le convenzioni relative alla procedura semplificata di estradizione tra gli Stati membri dell'Unione Europea (10 marzo 1995) ed all'estradizione tra gli Stati membri dell'Unione Europea (27 settembre 1996), contenenti previsioni importanti, come l'irrilevanza della motivazione politica ai fini della decisione sulla richiesta, per reati di terrorismo.
   Va inoltre ricordata l'Azione Comune del 21 dicembre 1998, relativa alla punibilità della partecipazione a un'organizzazione criminale negli Stati membri dell'Unione Europea, che affronta il tema dei reati di terrorismo e l'azione comune del 15 ottobre 1996 sull'istituzione e l'aggiornamento costante di un repertorio di competenze, capacità e conoscenze specialistiche nel settore dell'antiterrorismo, per facilitare la cooperazione fra gli Stati membri nella lotta al terrorismo.


V’ è poi, naturalmente, la normativa su cui si fonda, nell'Unione, il sistema del congelamento dei beni dei terroristi e, in particolare, il Regolamento del Consiglio n. 2580/ 2001  del 27 dicembre 2001 ed il Regolamento n. 881/2002/CE del 27 maggio 2002.






La Decisione quadro sull'armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di terrorismo ben potrebbe servire da modello in una convenzione contro il terrorismo delle Nazioni Unite.


Né questa, né altre definizioni, tuttavia, sono state mai accettate in tale ambito.


Qui, in effetti, la difficoltà di definire il terrorismo è politica, non giuridica: a differenza di ciò che avviene in ambiti regionali ristretti, quali l'Unione Europea o il Consiglio d'Europa, invero, a livello universale non vi è omogeneità di principi giuridici e, soprattutto, di politiche nei confronti del fenomeno terroristico.
   Quando le Nazioni Unite si posero per la prima volta il problema, negli anni '70 (vi erano stati ripetuti dirottamenti aerei a opera dell’OLP e di Settembre Nero), il dibattito si incentrò sulla necessità stessa di avere una definizione di terrorismo.
Da un lato vi erano coloro che ritenevano che una risposta normativa ad una condotta penalmente illecita non poteva ragionevolmente essere offerta se non ci si accordava su quale condotta fosse realmente proibita.

Altri ritenevano che fosse meglio procedere pragmaticamente, dal momento che un accordo sulla definizione probabilmente non sarebbe stato mai trovato: in quegli anni, invero, in piena guerra fredda, era difficile trovare una definizione di terrorismo comune ai due blocchi.
   Al tempo stesso, già all'epoca dovette prendersi atto del fatto che il costruire una definizione di terrorismo presentava aspetti di difficoltà tecnica non indifferenti.
   Ciò fu subito evidente ai componenti del Comitato ad hoc sul terrorismo, istituito dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1972.
   L'elemento della finalità politica, ad esempio, appariva ai più essenziale. E tuttavia, alcuni obiettarono che il suo inserimento nella definizione di terrorismo l'avrebbe possibilmente resa insufficiente a contenere tutti i possibili significati del termine. Si fece riferimento ad alcuni gravissimi crimini diretti contro la libertà individuale e, tuttavia,  non ispirati dalla motivazione politica, come la presa di ostaggi.  

All'interno del Comitato ad hoc, alcuni consideravano il terrorismo come caratterizzato da determinati tipi di condotta; altri ritenevano che fosse l'oggetto della condotta a distinguere il reato di terrorismo; altri ancora la finalità dell'agente.
   Ben presto alcuni Stati (prevalentemente a base religiosa islamica) sollevarono la questione del 'terrorismo di Stato' (pensando ad Israele): dal punto di vista strettamente giuridico, solo l'individuo può naturalmente essere giudicato 'terrorista'. Tuttavia, non è mancato nella storia delle Nazioni Unite chi ha fatto riferimento ad una nozione giuridica di terrorismo di Stato: talora il termine è stato utilizzato con riferimento a Stati che finanziano, addestrano o anche semplicemente incoraggiano i terroristi; talora, invece, l'espressione 'terrorismo di Stato' fu utilizzata semplicemente per stigmatizzare certa politica coloniale o l'invasione di altri Stati.

 
Ci si chiese, ulteriormente, se per essere considerato terrorista un individuo debba agire su spinta ideologica, ovvero se anche un mercenario – per esempio – possa essere ritenuto tale.


Le divergenze, all'interno del Comitato ad hoc, furono tali che nel rapporto all'Assemblea Generale, nel 1979, esso evitò ogni tentativo di offrire una definizione del fenomeno.

·        Terrorismo e lotte di liberazione nazionale


In effetti, deve riconoscersi che il mondo non concorda per nulla su chi debba considerarsi terrorista e chi no.

 Le divergenze non investono solo i casi-limite, ciò le organizzazioni la cui attività è al limite tra sovversione ed estremismo politico legale, e le cd. "umbrella organisations", che pur operando legittimamente a livello politico – contengono al loro interno o sono strettamente collegate ad organizzazioni di dichiarata matrice terroristica (basta pensare al partito nord - irlandese dello Sinn Féin braccio politico dell’IRA).
Il punto focale è, in realtà, costituito dalla qualificazione delle condotte poste in essere nel quadro delle lotte di liberazione nazionale.


Se gli Stati occidentali erano preoccupati che una definizione di terrorismo potesse essere utilizzata per includervi il 'terrorismo di Stato', mentre gli Stati africani e medio-orientali non hanno mai voluto accettare una definizione che – enfatizzando il ruolo di attori non statuali – non facesse differenze fra terrorismo in senso proprio e lotte di liberazione nazionale.
In linea generale, il diritto internazionale considera le lotte di liberazione nazionale legittime o, quantomeno, disciplinate da strumenti internazionali diversi da quelli penali, quali quelli rientranti nel diritto umanitario internazionale. Il formale riconoscimento, nella Carta delle Nazioni Unite (art. 1 par.2) del diritto dei popoli alla propria autodeterminazione costituisce il punto di riferimento fondamentale, ma vanno in proposito anche richiamate le Convenzioni di Ginevra del 1949 insieme ai due Protocolli addizionali del 1977.
   Proprio in forza della legittimazione offerta dalla Carta, il tema della differenza tra atti di terrorismo e lotta per l'autodeterminazione o per la liberazione da regimi oppressori, coloniali e razzisti fu ben presto portato all'attenzione delle Nazioni Unite dai Paesi in via di sviluppo, ottenendo – all'epoca – sostanziali riconoscimenti di principio: l'importante Risoluzione della Assemblea Generale n. 46/51 del 9 dicembre 1991, al paragrafo n. 15, sottolinea la sostanziale differenza tra terrorismo e diritto dei popoli, in particolare di quelli soggetti a regimi coloniali e razzisti, a lottare per l'autodeterminazione, la libertà e l'indipendenza. Nella Convenzione contro la presa d'ostaggi del 1979, all'articolo 12, le condotte poste in essere da chi lotta per la propria indipendenza furono, addirittura, espressamente escluse dal campo di applicazione della Convenzione.
   Già all'epoca, tuttavia, si stava parallelamente affermando il principio che nessuna protezione potesse essere riconosciuta dal diritto internazionale a coloro che, come i terroristi, violavano regole di condotta internazionalmente riconosciute e che, anzi, la reazione fosse, nei loro confronti, legittima.
   Fu dopo il raid in Libia del 14 aprile 1986 che gli Stati Uniti – chiamati a giustificare la violazione del territorio di uno Stato sovrano – sostennero, per la prima volta nella storia del diritto internazionale, che l'attacco perpetrato da individui od organizzazioni terroristiche  – e non da un altro Stato – poteva fondare l'esercizio del diritto di autodifesa (articolo 51 della Carta) e, pertanto, quello del ricorso all'uso della forza da parte dello Stato aggredito.


La reazione statunitense fu, all'epoca, condannata ex pluribus, ma suscitò una quantità di questioni di diritto internazionale: se gli atti di terrorismo siano in sé 'illegali' secondo il diritto internazionale e su quali basi; in quali circostanze uno Stato – vittima possa legalmente rispondere con le armi ad atti di terrorismo e nei confronti di chi: terroristi individuali, Stati che sostengono i terroristi ovvero che semplicemente li tollerano.

Tutto ciò che attiene, in generale, all'uso legittimo della forza in campo internazionale, questione tuttora aperta (rectius rafforzata a seguito delle due c.d. guerre preventiva in Iraq e in Afghanistan), ma al di fuori dell tema trattato in questa relazione. Qui basti ricordare che la prima volta in cui le Nazioni Unite affrontarono esplicitamente la questione degli Stati sostenitori di terroristi fu nel caso Lockerbie: il Consiglio di Sicurezza  affermò che i Paesi che sostengono terroristi violano l'articolo 2.4 della Carta, e che, pertanto, la reazione nei loro confronti si qualifica come legittima difesa.

Mi vengono  alla mente organizzazioni islamiste al pari di Ezbollah ed  Amas, gruppi terroristici di matrice islamica a Timor Est e in Indonesia  come i  guerriglieri Tamil  e i Fratelli musulmani  in Algeria e in  Egitto, oltre gruppi terroristici marxisti nell’area Caucasica, supportati  più o meno platealmente da Stati del Medio Oriente o della’Africa settentrionale e dell’est asiatico.
   Ciò che rileva, ai fini di questa analisi, è che dagli anni ottanta in poi si è affermato gradualmente il principio che gli atti di terrorismo sono ontologicamente  illegittimi per il diritto internazionale. A ciò corrispose la graduale accettazione di tale principio da parte dell'opinione pubblica. Quella occidentale, in particolare, è stata certamente influenzata, in tal senso, dall'evoluzione del conflitto mediorientale: gli attacchi contro civili da parte dei palestinesi sempre più sono stati sentiti come ingiustificabili, anche da chi prima considerava le azioni dei palestinesi legittime contro l'oppressione straniera.
   Di tale mutata sensibilità si ha evidente riscontro nelle Risoluzioni dell'Assemblea Generale.

   Ad una lettura delle Risoluzioni contro il terrorismo della Assemblea Generale, dal '91 ad oggi, può riscontrarsi come l'aspetto di danno e pericolo per la sicurezza della Comunità mondiale derivante dal terrorismo sia decisamente enfatizzato rispetto al riconoscimento del principio (pur ribadito con forza dalle Nazioni Unite in altri settori di intervento), del diritto irrinunciabile dei popoli ad affrancarsi da regimi oppressori. Viene, allo stesso tempo, affermato con forza che gli atti di terrorismo sono ingiustificabili da chiunque commessi,  qualunque ne sia la motivazione, ideologica, religiosa o politica dell'autore.
   Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha unito la sua voce a quella della Assemblea Generale con un vigore ed un linguaggio mai uguagliati in precedenza: basti pensare alle Risoluzioni 1267 del 1999 e 1333 del 2000, dirette contro Bin Laden, Al Qaeda ed i Talebani, ed le Risoluzioni 1373 e 1377 del 2001, nonché 1390 del 2002.
   Nelle Risoluzioni successive all'11 settembre, il principio della ingiustificabilità degli atti di terrorismo è affermato oramai in modo perentorio: qualsiasi affermazione giustificazionista di azioni terroriste urta oramai fortemente contro la sensibilità della comunità internazionale.



·        Il tema delle lotte di liberazione nazionale nelle Convenzioni Nazioni Unite


   Come ho cercato di dimostrare, non esiste alcuna definizione in alcun Atto internazionale afferente il terrorismo.


   L'unico trattato multilaterale che contenga una definizione di terrorismo è la Convenzione contro il terrorismo della Organizzazione della Conferenza Islamica del 1999, ove le lotte di liberazione sono espressamente escluse dall'ambito della definizione. È ben vero che, nella Convenzione contro la presa d'ostaggi delle Nazioni Unite, fu introdotto un elemento definitorio 'a contrario', perché le condotte poste in essere da chi lotta per la propria indipendenza sono espressamente escluse dal campo di applicazione della convenzione. Tuttavia, si tratta di una disposizione introdotta nel 1979 e mai rinnovata in Trattati successivi.


   Si è detto della essenzialità, in una astratta definizione di terrorismo, dell'elemento teleologico politico comunque concepito.
   Tuttavia, se già è raro riscontrarne la presenza in strumenti internazionali non convenzionali, in alcun modo si fa riferimento alla finalità politica in Trattati delle Nazioni Unite in materia di terrorismo: delle dodici convenzioni finora adottate, dieci non contengono neppure la parola 'terrorismo' mentre due (le più recenti) la riportano solo nel titolo, e non nel testo. In undici non è indicata espressamente alcuna finalità, grazie anche al fatto che la finalità terroristica poteva considerarsi implicita in relazione alla condotta presa in considerazione: presa di ostaggi, dirottamento di aereo, collocazione di bombe in luogo di pubblico transito, etc..

Nella Convenzione contro il finanziamento del terrorismo, dove era, invece, necessario inserire qualche elemento tipizzante, per definire la finalità terroristica si utilizzarono circonlocuzioni, evitandosi di menzionare espressamente obiettivi politici o di eversione.
   La totale disparità di vedute su che cosa debba intendersi per terrorismo, divenne evidente nel negoziato per la redazione della  Convenzione per la repressione del terrorismo dinamitardo del 1997. Qui per la prima volta, in un documento delle Nazioni Unite contro il terrorismo, fu stabilito che le condotte disciplinate dalla Convenzione non avrebbero potuto mai considerarsi come politiche, ai fini del diniego della richiesta di estradizione. Ciò, peraltro, corrispondeva ad una tendenza oramai da tempo in atto in strumenti internazionali.
   La vera novità, in una Convenzione di tipo penale, era invece costituita dall'articolo 19,  in base al quale le attività delle forze armate militari di uno Stato erano escluse dal campo di applicazione della Convenzione. sia durante un conflitto armato sia ''nell'adempimento dei doveri'' del militare.
   Il principio, in sé, non era nuovo, costituendo il corrispettivo delle disposizioni il materia di 'legittimo combattente' contenute in strumenti del diritto umanitario. La novità era costruita dall'inserimento in una
convenzione penale della 'esenzione' dal suo campo di applicazione di una determinata categoria di individui (gli appartenenti ad un esercito regolare statuale).
   La mancanza di una parallela, espressa esclusione per i combattenti in lotte di liberazione indusse nei Paesi islamici la convinzione che la disposizione fosse stata costruita per giustificare il ''terrorismo di Stato'' di Israele e per sanzionare le condotte analoghe poste in essere dai palestinesi.
   All'epoca, la disposizione fu, dopo un estenuante negoziato, accettata dai Paesi islamici, adottata e riuscì ad entrare  in vigore. Nella successiva Convenzione per la lotta al finanziamento del terrorismo del 1999, la questione fu sopita, perché la condotta presa in considerazione non era riconducibile a quella delle  forze armate di uno Stato.

·        Il tema delle lotte di liberazione nel progetto di Convenzione globale contro il terrorismo


La questione è, invece, riesplosa nel negoziato della Convenzione globale contro il terrorismo. Benché la convenzione si trovi attualmente in una fase di stallo forse senza soluzione – quantomeno in tempi brevi – sembra utile, per una migliore comprensione del tema, richiamare alcuni punti nodali del negoziato, concernenti appunto la questione della definizione del fenomeno in parola.

I proponenti indiani omisero, nella redazione del progetto, ogni riferimento testuale a definizioni di terrorismo, lasciando libero spazio a proposte di emendamento sul tema. L'obiettivo politico che i Paesi  a base maggioritaria musulmana specificamente si prefiggevano non era celato: legittimare  l'Intifada palestinese come resistenza legittima all'occupazione israeliana.


   Nel negoziato della Convenzione globale, le proposte testuali dei Paesi islamici rifletteveno precisamente tale obiettivo. Era naturale che tali proposte si scontravano con la posizione che gli occidentali avevano sempre tenuto in materia.


  •  L'articolo 18 della Convenzione globale contro il terrorismo
     


 Al fine di escludere espressamente dal campo di applicazione della Convenzione globale contro il terrorismoi ''combattenti contro l'occupazione straniera'', i Paesi maomettani hanno nel negoziato preferito proporre un emendamento in tal senso all''articolo 18 del progetto indiano, piuttosto che tentare la via più ardua della introduzione di una definizione di terrorismo che non contempli tale categoria di combattenti.


   L'art. 18, comma 2, del progetto indiano, nella attuale formulazione è identico all'articolo 19 della Convenzione contro il terrorismo a mezzo esplosivi e   stabilisce che: "La Convenzione non si applica a quelle attività compiute dalle forze armate durante un conflitto armato che sono disciplinate dal diritto internazionale umanitario, intese le espressioni 'forze armate' e 'conflitto armato' nel modo in cui sono intese nel diritto internazionale umanitario stesso…".
   I Paesi aderenti all'Organizzazione della Conferenza Islamica avrebbero inteso aggiungere nel comma 2 una espressa menzione ai combattenti contro l'occupazione straniera.


   Gli occidentali hanno un forte argomento, già utilizzato durante il negoziato della Convenzione contro il terrorismo dinamitardo, avverso tale proposta: quest'ultima è inutile, in quanto le condotte dei movimenti e dei popoli che lottano per l'autodeterminazione sono già escluse dall'ambito di applicazione della Convenzione globale, sulla base della attuale formulazione dell'articolo 18.
   La ratio dell'articolo 18, infatti, è quella di stabilire una demarcazione tra l'ambito di applicazione della Convenzione globale da un lato e del diritto internazionale umanitario dall'altro: la Convenzione contro il terrorismo non si applica a quelle categorie che il diritto internazionale umanitario definisce come 'forze armate' nel corso di un 'conflitto armato'.
   I Trattati contro il terrorismo contemplano un certo numero di condotte normalmente poste in essere in tempo di pace, quali la presa di ostaggi, il dirottamento aereo, etc. Atti di terrorismo, tuttavia, possono essere commessi altrettanto facilmente in stato di guerra, interna o internazionale. Di conseguenza, un certo numero di trattati multilaterali, di cui i principali sono le Convenzioni di Ginevra del 1949, ed i due Protocolli addizionali del 1977, contengono disposizioni che bandiscono in tempo di guerra condotte riconducibili alla nozione di 'terrorismo'.
   L'art. 3 delle Convenzioni di Ginevra, ad esempio, proibisce certi atti contro "persone che non hanno parte attiva nelle ostilità", durante un conflitto armato a carattere internazionale. Tra questi atti sono contemplati la violenza contro la persona, in particolare l'omicidio, la mutilazione, la tortura, trattamenti umilianti e degradanti. Il secondo Protocollo vieta al combattente condotte rivolte ''contro la popolazione civile come tale…'' e consistenti in ''atti di violenza il cui fine primario è spargere il terrore nella popolazione civile'' (art. 51.2). Il terzo Protocollo, poi, espressamente proibisce gli ''atti di terrorismo'' (art. 4.2).
   L'art. 18 costituisce il corrispettivo di tali disposizioni e vale, pertanto, a ribadire un criterio, quello della demarcazione fra diversi ambiti, già precedentemente affermato.


   La disposizione rinvia alle definizioni elaborate dal diritto internazionale umanitario con riferimento non solo alle "attività" cui la convenzione non si applica, ma anche ai soggetti di tali attività, e cioè gli appartenenti alle forze armate durante un conflitto armato.


   Rilevano a tale  proposito i due Protocolli addizionali alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, già richiamati.

 Il primo  all'art. 43 qualifica come "forze armate" tutti i gruppi ed unità organizzati subordinati ad un capo, anche se essi rappresentano un governo o un'autorità non riconosciuta dalla Parte avversa. Il secondo, all'art. 1, estende la nozione di legittimo combattente alle "forze armate dissidenti ed ai gruppi armati organizzati" che, sotto comando, esercitano il controllo di una parte del territorio della Parte avversa, e sempre che non si tratti di atti isolati e sporadici di violenza. Nello Statuto della Corte Penale Internazionale, poi, possono indirettamente rinvenirsi ulteriori estensioni della nozione generale di “legittimo belligerante”.
   Da questa analisi emerge, quindi, che l'esimente prevista dall'art. 18 va estesa, per rinvio, alle condotte di tutti quei gruppi armati o movimenti diversi dalle forze armate regolari di uno Stato, che rispondono ai requisiti sopra delineati e ad altri eventualmente ricavabili dal diritto umanitario.
   La formulazione dell'articolo 18 ben riflette due principi: da un lato che l'esimente, dal punto di vista dei soggetti, si applica solo agli individui od organizzazioni che rientrano nella nozione di legittimo combattente, ai sensi del diritto internazionale umanitario. Dall'altro lato, che l’esclusione  dall'applicazione della Convenzione si verifica solo nella misura in cui si applica il diritto internazionale umanitario: unicamente, pertanto, se la condotta del combattente si mantiene nelle sue tipiche manifestazioni, e non se si esplicita in atti di terrorismo contro la popolazione civile, aventi le caratteristiche sopra delineate.


   I rappresentanti degli Stati  occidentali, in spirito di compromesso, si erano dichiarati disponibili a rendere esplicito il criterio della parificazione tra forze armate regolari e gruppi armati combattenti, estendendo l'esenzione prevista per le forze armate ai 'parties to a conflict', mentre   l'Unione Europea  propose di inserire nell'art. 18 un espresso riferimento al principio di autodeterminazione dei popoli, quale riconosciuto nella Carta delle Nazioni Unite.

   Invero, l'espressa esclusione proposta dai paesi islamici solamente per  chi combatte contro l'occupazione straniera – escludendo qualsiasi altra categoria di combattente -  da un lato avrebbe introdotto una ulteriore distinzione nell'ambito della stessa categoria delle forze armate ed equiparati, dall'altro sarebbe stata troppo chiaramente e provocatoriamente riferita ad un solo tipo di lotta armata, quella palestinese, per poter essere accettata (che ieri qualcuno poteva riferire ai terroristi in terra irachena e domani in terra siriana).


  • Ulteriori riflessioni
          

La convergenza su una definizione di terrorismo per tutti accettabile, è obiettivo importante: la lotta contro il terrorismo ha bisogno di condivisione degli obiettivi e di una base il più possibile allargata. La felice conclusione di una convenzione contro il terrorismo delle Nazioni Unite servirebbe, da questo punto di vista, a riaffermare l'ampiezza della coalizione globale contro il fenomeno, riportando allo stesso tempo il tema nell'alveo dell'Assemblea Generale.
   Sarebbe riduttivo riportare  il terrorismo in esame nel campo del mero diritto penale. E’ indubbiamente un  fenomeno criminale,  ma sarebbe miope e controproducente trattarlo solamente come tale, alla stregua di una qualunque condotta penalmente rilevante, anche se particolarmente efferata, lesiva di una norma penale incriminatrice di valenza internazionale. Il fenomeno va condotto nella  latitudine più ampia della politica. Solo all’interno di essa  può essere ben configurato  questo fenomeno e solo inquadrandolo come espressione di “azione politica” condotta con metodologie estremamente violente e pericolose per lo stesso genere umano,  potrà essere combattuto con maggiore determinazione ed efficacia.



 -considerazioni sulla soggettività internazionale

Il diritto internazionale è il diritto della comu­nità degli Stati;  le norme internazionali, seb­bene tendano oggi a regolare qualsiasi tipo di rapporto ed anche rap­porti interni alle varie comunità statali, si indirizzano formalmente agli Stati, cioè creano diritti ed obblighi per questi ultimi.

Occorre chiedersi se, accanto agli Stati, che senza dubbio sono i principali pro­tagonisti della scena internazionale, vi siano altri enti cui il diritto inter­nazionale formalmente si rivolga e, quindi,  possano considerarsi anch’essi come soggetti.

 In primo luogo v’è da precisare che  il diritto internazionale si rivolge allo Stato -organizzazione e che tale organizzazione in tanto è presa in considera­zione, in quanto  esercita effettivamente il proprio potere su di una comu­nità territoriale. Il requisito della effettività è essenziale. I Governi che... non governano non hanno da gestire interessi di rilievo sul piano internazionale( Il governo Karzai esercita il proprio potere su tutto il territorio dell’Afghanistan o solamente su Kabul?).

Va pertanto negata la soggettività ai Governi in esilio.

   Analogamente  ai Governi in esilio, deve essere valutato il fenomeno delle organizzazioni, o fronti, o comitati di libe­razione nazionale (come  al tempo l’Organizzazione per la Liberazione della Pale­stina), che abbiano sede in un territorio straniero, avendo quivi costitui­to, fin dall’inizio, una sorta di organizzazione di governo.

E’ opportuno rappresentare che l’OLP, è stata  regolarmente invitata a partecipare, senza diritto di voto, alle sedute degli organi delle Nazioni Unite in cui si dibat­tono questioni che la interessano: partecipava ai lavori di altre organizzazioni internazionali ed ha «uffici» (non rappre­sentanze diplomatiche) in vari Paesi, compresa l’Italia:  ciò non significa che si sia in presenza di un soggetto di diritto internazionale.

Secondo la giurisprudenza di legittimità italiana (Cassazione sent.. 28.6.1985 n. 1981, in RDI, 1986), I’OLP ed anzi tutti i movimenti di liberazione nazionale — anche quelli non aventi un’organizzazione di governo installata nel territorio di uno Stato —godrebbero di una soggettività limitata allo scopo «di discutere, su basi di per­fetta parità con gli Stati territoriali, i modi ed i tempi dell’autodeterminazione dei popoli da loro politicamente controllati, in applicazione del principio di auto­determinazione dei popoli ritenuto norma consuetudinaria di carattere cogente (sull’autodeterminazione dei popoli). Esclusa, invece, la soggettività piena, la Corte ha negato al Capo pro tempore dell’OLP, Yasser Arafat, l’immunità accordata dal diritto internazionale ai Capi di Stati esteri. Quanto alla «soggettività limitata», nei termini indicati dalla Corte, ha scarso significato giuridico.

Oltre al requisito della effettività, un altro requisito è da conside­rare come necessario ai fini della soggettività internazionale dello Stato ed è quello della indipendenza o sovranità esterna,  ossia che l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato.

Per individuare la sovranità di uno Stato e la sua autonomia da altri ordinamenti statuali non si può che ricorrere ad un elemento formale: è indipendente lo Stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza giuridica da una propria Costituzione e non dall’ordinamento giuridico o dalla Costituzione di altro Stato. Sul dato formale prevale quello reale, quando tutti gli elementi fattuali palesano l’ingerenza da parte di uno Stato straniero nell’esercizio del governo, ingerenza che può essere totale o afferire le scelte primarie di uno Stato: la politica economica, esterna, militare e sulla sicurezza. In tali evenienze  si sostanzia uno Stato fantoccio. A parte i Governi fantoccio del passato (Governo Quisling in Norvegia e Vichy in Francia durante l’occupazione nazista e, per alcuni,  la Repubblica Sociale Italiana), Stati fantoccio attuali possono essere considerati il Transkei e, sino al 1990, la Namibia, Stati formalmente indipendenti ma totalmente controllati dal governo Sudafricano. Ci si può porre il quesito se uno Stato controllato per la più gran parte del suo territorio da forze militari straniere possa considerarsi realmente sovrano e indipendente. L’Afghanistan è controllato nella parte sud dai talebani e per il resto del territorio dalle truppe delle Nazioni Unite e dall’esercito afghano. Anche le recenti vicende ci consentono di insinuare il dubbio che il governo afgano sia da considerare almeno a sovranità limitata sia sotto l’aspetto squisitamente territoriale che di azione di governo. Forse più  che uno Stato sovrano l’Afghanistan è un protettorato della Nazioni Unite, che possiede  una propria soggettività internazionale limitata ad alcune aree territoriali  per il tramite della autorità dell’ONU (come è avvenuto per la Namibia a partire dal 1990).

Una volta chiarito che un’organizzazione di governo diviene automaticamente soggetto di diritto internazionale quando esercita in modo effettivo ed indipen­dente il proprio potere su  una comunità territoriale, resta anche risolto il problema, assai dibattuto nella dottrina meno recente, della soggettività dei gruppi   insurrezionali.       Gli insorti, in quanto tali, non sono certo soggetti di diritto internazionale, ma solo dei cittadini  ribelli nei confronti dei quali il Governo se legittimo può pren­dere i provvedimenti che considera più opportuni. E’ la presenza di un governo considerato legittimo dalla più gran parte dei suoi cittadini( cosa che avviene quando si  svolgono elezioni democratiche e regolari) e dalla più gran parte della comunità internazionale che qualifica come “insorti”, “ribelli” o “terroristi” coloro che si oppongono al governo con strumenti extra ordinem, ossia al di fuori da quelli ordinariamente apprestati dall’ordinamento giuridico statuale di appartenenza.

A tale proposito è opportuno riprendere in discorso sulla autodeterminazione dei popoli e sui movimenti di liberazione nazionali.

  •  Autodeterminazione dei popoli

     Il principio di autodeterminazione è oggi una regola di diritto inter­nazione dei popoli riconosciuta  in testi convenzionali (ad es. Patti delle Nazioni Unite sui diritti umani), come tali vincolanti solo gli Stati contraenti, ma anche in ambito consuetudinario, in forza di  una prassi che si è sviluppata ad opera delle Nazioni Unite e che trova la sua base sia nella stessa Carta dell’ONU (art. 1, par. 2 e art. 55), sia in certe solenni Dichiarazioni di principi dell’Assem­blea generale dell’Organizzazione, come la Dichiarazione del 1960 sull’indipendenza dei popoli coloniali e quella del 1970 sulle relazioni ami­chevoli tra gli Stati. Anche la Corte  Internazionale di Giustizia ne ha riconosciuto l’esistenza come principio consuetudinario in due pareri resi su richiesta dell’Assemblea generale, il parere 21.6.1971 sulla Namibia  e il parere 16.10.1975 sul Sahara occidentale.

E’ opportuno precisare che una interpretazione troppo amplia e, quindi,  un uso distorto e, in qualche maniera, funzionale, di questo principio può portare ad avvallare la ribellione di qualsivoglia comunità sociale verso lo  Stato su cui essa insiste: sarebbe stata legittima la rivolta, anche armata, del popolo altoatesino contro il  Governo di Roma?

   Il principio di autodetermina­zione, in quanto principio giuridico ricavabile dalla prassi effettiva della generalità degli Stati e non in quanto slogan propagandato da questo o quel raggruppamento partitico, ha un campo di applicazione in realtà piuttosto ristretto. Esso si applica soltanto ai popoli sottoposti ad un Governo straniero, in primo luogo ai popoli soggetti a dominazione coloniale; in secondo luogo alle popolazioni di territori conquistati ed occupati con la forza (si pensi ai territori arabi occupati da Israele dopo il 1967).

    Come si legge nelle citate Dichiarazioni dell’ONU e, come è stato ribadito dalla Corte Internazionale di Giustizia, l’autodeterminazione comporta il «diritto» dei popoli sottoposti a dominio straniero di divenire indipen­dente, di associarsi  od integrarsi con altro Stato indipendente, di scegliere comunque liberamente il proprio regime giuridico.

Il diritto internazionale generale impone dunque allo Stato che governa un territorio non suo di consentirne l’autodeterminazione. Può anche sostenersi che, di fronte alla violazione di questo prin­cipio, gli altri Stati siano tenuti ad adottare misure di carattere san­zionatorio, come il disconoscimento di ogni effetto extraterritoriale agli atti di governo emanati nel territorio. Lecito è poi conside­rato, sempre dal diritto internazionale generale e sempre in conformità ad una prassi sviluppatasi ad opera delle Nazioni Unite, l’appoggio for­nito ai movimenti di liberazione nazionale (spesso dato da Stati dittatoriali come nel caso di Cuba che finanziò e aiutò militarmente i movimenti marxisti angolani che, preso il potere nel 1975, hanno imposto una feroce tirannide su una  popolazione che aveva appena ottenuto l’indipendenza dal Portogallo).

Tutto ciò premesso, si può parlare di un vero e proprio diritto soggettivo internazionale dei popoli sottoposti a dominazione straniera alla autodeterminazione? In realtà anche in questo caso, ed anzi con maggiore evidenza rispetto a quello delle norme riguardanti gli individui, i rapporti di diritto interna­zionale intercorrono in modo esclusivo tra gli Stati. È nei confronti della comunità internazionale nel suo com­plesso che sussiste l’obbligo per il Governo straniero di consentire l’autodeterminazione, ed  è nei confronti della comunità internazionale che gli Stati  hanno l’obbligo di negare efficacia extraterritoriale agli atti di Governo compiuti in violazione del principio in parola.

   Non è invocabile, altresì, la c. d. natura internazionale delle guerre di liberazione, sempre che con ciò non si voglia ribadire – ed il sottoscritto è di contrario avviso -  che alla lotta dei popoli per l’autodeterminazione, se armata, si possano applicare le norme consuetudinarie del diritto internazionale bellico valevoli per la  guerra fra Stati. Questa tesi è stata in effetti propugnata in sede di Nazioni Unite e, talora  accolta in alcune contrastate risoluzioni deIl’ Assemblea dell’ONU (ricordo che le risoluzioni dell’Assemblea non hanno, di per sé, forza vincolante), ma  sempre contrastata dal  gruppo dei Paesi occidentali, non è  sostenibile nei consessi internazionali (salvo non si voglia andare avverso una cementificata linea di pensiero europea, nordamericana e australiana)

Devono essere tenuti in considerazione i risultati della Conferenza sul diritto umani­tario  nei conflitti armati, Conferenza tenutasi a Ginevra tra il 1974 e il 1977 per integrare le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 sulla protezione, rispettivamente, dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna, dei feriti, malati naufraghi delle forze armate navali, dei prigionieri di guerra e dei civili in tempo di guerra, ove, nel I Protocollo,  di precisa che  all’”Autorità rappresentante il popolo” non è attribuita la veste di parte contraente (se poi tale “Autorità” ha natura terroristica non viene nemmeno riconosciuta come tale, ma semplicemente come “nemico”, non avendo la dignità posseduta dagli Stati belligeranti sconfitti di accomodarsi  al tavolo della pace).

                                          Fabrizio Giulimondi